Data l’enorme risonanza mediatica relativa all’epidemia del c.d. “Coronavirus” (nomenclato COVID-19), ci sembra inutile soffermarci sugli antefatti e sull’attuale situazione in Italia; ci sembra però importante, per quella che è la nostra professione, soffermarci su quello che accade quando le aziende sospendono l’attività, perchè costrette o per scelta, e quando invece sono i lavoratori a non recarsi al lavoro a causa della situazione contingente.

Qui di seguito cerchiamo di riassumere le casistiche e quelle che sono, almeno per il momento, le conseguenze delle varie condotte possibili:

  1. Un’ordinanza pubblica impone agli abitanti di una certa area geografica di lasciare la propria abitazione: ovviamente il lavoratore non può recarsi al suo posto indipendentemente dalla sua volontà e, quindi, la sua giornata lavorativa deve essere retribuita regolarmente, senza che vengano scalate ore di ferie o di permesso. Risulta evidente come, in questo caso, anche la volontà del datore di lavoro non sia coinvolta nella decisione di sospendere le attività aziendali e a questa considerazione sono dovute le richieste, giunte da più parti, di un decreto che preveda l’intervento della CIG, anche in deroga, per questo tipo di evento. Una misura che può essere utilmente utilizzata per alcuni tipi di mansioni, per proseguire le attività lavorative, è l’utilizzo dello smart working che, per questa evenienza, è stato ulteriormente facilitato. Nelle regioni colpite dal contagio, infatti, la parti sono esonerate  anche dalla stipula in forma scritta dell’accordo di Lavoro Agile. Restano alcuni dubbi su alcuni istituti normalmente regolamentati nell’accordo di smart working: es. gestione della privacy e protezione dei dati aziendali, obbligo di disconnessione, informativa sulla sicurezza, ecc. Per ora, secondo le prime indicazioni, può essere inviata l’informativa relativa alla sicurezza sul lavoro al lavoratore tramite e-mail (fac-simile scaricabile dal sito INAIL), così come può essergli ugualmente inviata con e-mail l’informativa sulla privacy.
  2. Un’ordinanza vieta l’accesso ad una determinata area geografica, dove si trova l’azienda: il caso è assimilabile in tutto e per tutto al precedente e gli esiti sono i medesimi. Anche in questo caso si auspica un veloce intervento del Ministero per l’applicazione della CIG, possibilmente anche alle aziende che normalmente non vi rientrano.
  3. Lavoratore posto in quarantena perché presenta i sintomi della malattia o perché venuto in contatto con individui o zone contagiati: essendo l’individuo posto sotto sorveglianza sanitaria e, quindi, impossibilitato a recarsi al proprio posto di lavoro, il caso non può che essere gestito, in relazione alla retribuzione, come un evento di malattia e, quindi, secondo le previsioni del CCNL applicato in azienda.
  4. Il lavoratore non si reca al lavoro in quanto si è posto in quarantena volontaria, avendo avuto contatti con individui malati o essendo stato in zone a rischio epidemiologico indicate dall’OMS: in questi casi il lavoratore informa, come d’obbligo secondo la normativa d’urgenza, l’ASL di competenza del suo stato e, in attesa dell’eventuale provvedimento della pubblica autorità di procedere alla sorveglianza sanitaria attiva, si pone in quarantena volontaria basata sugli obblighi di cui sopra. Anche questo caso, fondandosi l’assenza su di un obbligo normativo e in virtù dell’interesse alla conservazione della saluta pubblica, è assimilabile in tutto e per tutti alle prime due ipotesi sopra menzionate.
  5. Il lavoratore non si reca al lavoro per timore della malattia e non in base ai presupposti di cui ai punti precedenti: si tratta in questo caso di un rifiuto ingiustificato a fornire la propria prestazione lavorativa e, come tale, comporta la mancata retribuzione delle ore di assenza oltre ad un eventuale procedimento disciplinare che può sfociare fin’anche in un licenziamento per mancanze.
  6. L’azienda, per timore del contagio, sospende le proprie attività e comunica ai lavoratori di non presentarsi ai propri posti di lavoro: la scelta è dovuta alla volontà del datore di lavoro e, quindi, le ore non lavorate devono essere retribuite normalmente, senza che vengano scalate ore di ferie o di permesso.